La penna supera l’anima – di Leonardo Colombati

Scrivere è rispondere alla sentenza iscritta nel tempio di Apollo a Delfi: «Conosci te stesso». Ovidio e Dante, Shakepeare e Tolstoj sono filosofi. Così come William Faulkner e Saul Bellow. Caso rarissimo, quest’ultimo, perché parlava come scriveva. E si dà il fatto che Saul Bellow scrivesse da dio. E già, perché il problema, per chi scrive, è lo iato tra pensiero ed espressione: “Ho in testa un’idea favolosa per un racconto, ma non trovo le parole…”. Presto o tardi, però, si scopre che la penna arriva ben più lontano dell’anima; la lingua è più potente della coscienza. Ed è per questo che la letteratura può salvarci la vita. Perché possiamo tramutare l’angoscia in un’opera d’arte, essere contemporaneamente dentro e fuori di noi stessi. Diceva Goethe che non vi è mezzo migliore di sfuggire al mondo che l’arte; nessun mezzo migliore d’entrare in contatto col mondo che l’arte. Alla fine, c’è un paradosso: scriviamo per arrivare alla pace interiore, che è data dalla conoscenza. Ma ciò che è pacificato attraverso la conoscenza è artisticamente morto: la santità e il dramma non sono conciliabili. Infatti, per Buddha l’arte è la più sicura deviazione dalla salvezza. Tolstoj lo sapeva e volle rinunciarvi. Dobbiamo fare lo stesso? Io non voglio. La letteratura è il modo in cui immagino la Bellezza, ricordandomi che fantasia non significa immaginarsi qualcosa, ma dare importanza alle cose (attribuendo massima importanza alle parole). E cosa facciamo quando diamo tutta la nostra concentrazione, attenzione, passione alle cose? Le amiamo.